Panel of the Lions – Chauvet Cave © Claude Valette

Al di là delle implicazioni social, quella di rappresentarsi, e quindi di ri-guardarsi nella propria realtà e nel proprio mondo è una necessità dell’uomo antica come le pitture rupestri del paleolitico: lasciare un segno, una traccia per l’eternità.
Dai dipinti nella grotta Chauvet ai paesaggi naturalistici del XIX° secolo, la pratica artistica ha cercato di rappresentare il mondo esterno in modo sempre più realistico e tridimensionale.
È l’avvento della fotografia e poi del cinema – verso la metà dell’Ottocento – con la sua straordinaria e inedita capacità di catturare la realtà, a fermare questa progressione.

Il cinema, a partire dalla sua nascita, risponde meglio di qualsiasi altro mezzo al bisogno ancestrale dell’uomo di fissare non solo la propria immagine, ma un’esperienza dinamica del mondo in una forma eterna. I fratelli Lumière formarono 500 fotografi all’uso del cinematografo con la missione di viaggiare e riprendere i luoghi che visitavano, creando così un autoritratto del mondo. Dopo secoli di sperimentazioni, l’uomo è oggi in grado di rappresentare la realtà nella maniera più verosimile e riconoscersi sullo schermo. Sin dagli esordi, quando l’operatore del cinema faceva le riprese, la gente affollava le piazze sperando di potersi poi rivedere all’interno di una sala attraverso quel fascio di luce che veniva dal proiettore.

La naturale attrazione delle persone per questo nuovo linguaggio era assolutamente ricambiata: il cinema delle origini, oltre che dai paesaggi e dalla modernità, è irresistibilmente attratto dall’uomo, dai volti, dalle espressioni, dai gesti, dagli abiti, dai cappelli. Quello che oggi conosciamo come primo pianoclose diventa quasi un genere cinematografico in sé.

Anche in ambito storico-artistico, il genere dell’autoritratto risponde al bisogno dell’uomo di affermare la propria presenza, è la risposta al desiderio di consegnare la propria immagine all’eternità e al contempo il tentativo di definire la propria identità in relazione al mondo. La pratica dell’autobiografia, sia essa letteraria o visiva, è infatti fondamentale per la costruzione dell’identità personale.

Per l’artista ritrarre se stesso non è solo mostrarsi e presentarsi ai suoi osservatori e al suo pubblico, come accade nella maggior parte delle autobiografie social, ma è anche progettarsi, proiettarsi al di fuori per potersi rispecchiare.Marco Dallari, Cristina Francucci, L'esperienza pedagogica dell'arte, La Nuova Italia, Scandicci, 1998, p. 95.
Ci sono tanti modi di farlo: in modo realistico, verosimigliante, o attraverso la metafora, ad esempio rappresentando visivamente la dimensione del “proprio”, ciò di cui ciascuno di noi può dire mio. Moltissimi ritratti presentano il mio dell’artista per sottolineare attraverso gli abiti, gli oggetti e altro chi è o che mestiere fa, da dove viene, qual è la sua storia.

Self-Portrait (1889) – Vincent Van Gogh

Naturalmente, cinema e pittura non sono semplici copie del mondo, ma creazioni di nuove immagini, che comportano la scelta di punti di vista, prospettive, inquadrature: aspetti frutto di uno sguardo soggettivo che rende ogni opera unica e personale.